A Piacenza una donna osa denunciare un primario per molestie sessuali, a Roma una donna osa denunciare un chirurgo direttore e professore ordinario che la offende in sala operatoria e le sferra persino un pugno sulla nuca.
Comincia a subire scossoni il silenzio che da lunghi anni copre con la sua coltre insidiosa le violenze che le donne subiscono sui luoghi di lavoro, in particolare nelle strutture sanitarie. Con fatica, tanto che dobbiamo definire coraggiose le donne che infine osano reagire alla violenza subita e alle intimidazioni che spesso la seguono. Sì, perché fortissime sono le pressioni sociali che quasi considerano tale violenza ovvia, e in fondo accettabile, per una ragione o per l’altra: «in fondo lui è bravo, così fan tutti, scherzava, era teso per l’intervento difficile, una donna di carattere dovrebbe sapere come evitarle o sapere prenderle per il verso giusto»… Sono solo alcune delle tante scusanti che finiscono per giustificare la presunta superiorità di comportamenti maschili diffusi e prevaricatori.
Mi torna in mente un articolo di “Prima Pagina” del lontano 1992, che esaminavo per un articolo a proposito di uno dei primi processi italiani per molestie sessuali sul luogo di lavoro[1]. A commento di una ricerca lombarda sul benessere lavorativo delle lavoratrici e della vicenda processuale in corso[2], l’articolo considerava quasi scontato che in ambienti sanitari ciò potesse accadere: «Non è un mistero che siano proprio gli ospedali a essere teatro di molestie sessuali. Un luogo dove le gerarchie sono strette e dove rifiutare un “favore” potrebbe anche significare avere diversi fastidi»[3]. Appariva dunque ovvio, più di quarant’anni fa, che in tali “strette” gerarchie fossero gli uomini ad occupare la posizione di maggior potere.
Ma forse tuttora, specie in contesti sanitari e chirurgici, tale ovvietà gerarchica riceve base fattuale. Ne discende la successiva “scontata” implicazione: gli uomini che ricoprono un ruolo di potere possono “comprensibilmente” permettersi la richiesta di favori sessuali così come la libertà di adirarsi per la tensione connessa ad un lavoro tanto importante (“salvare vite umane”): possono quindi umiliare, offendere e persino colpire una donna.
Di fatto, però, in tal modo mettono a repentaglio la sicurezza sul luogo di lavoro, di cui proprio i capi in primis dovrebbero ritenersi responsabili, e che dovrebbe valere in modo paritario per tutti i lavoratori, uomini e donne, capi e sottoposti. E disvelano l’iniqua giustificazione di una loro maggiore autorità di giudizio e di parola. Una giustificazione che incontra per lo più una forte accettazione sociale. In effetti, denunciare non sempre sortisce effetti positivi, e non solo per le intimidazioni: ancora oggi la parola di una donna non appare di per sé credibile, anzi — come nel caso di Roma — sarà il grande chirurgo ad avere per primo la parola nei media: il pugno non è vero, e per quanto riguarda le offese si è persino scusato, in fondo bisogna capire la concentrazione richiesta dal “salvare le vite umane”.
A proposito delle posizioni di potere oggi ancora presenti in ambito sanitario, mi limito a ricordare alcuni dati relativi all’accademia. Nelle Università italiane la percentuale di forza lavoro femminile impegnata nelle scienze mediche risulta essere, nel 2020, pari al 35%, ma le professoresse ordinarie rappresentano poco meno del 19% di contro all’81% dei posti ricoperti da uomini[4]. Se poi guardiamo all’ambito chirurgico (e anche qui non è un mistero che si tratta di un settore a cui si attribuisce una reputazione sociale fortissima), nel 2025 rileviamo che su 299 professori ordinari solo 18 sono donne (il 6%)[5].
Una “stretta” gerarchica forte e fatale; ad essa si collega un senso comune ancora arroccato sulla presunta e ormai obsoleta superiorità maschile in termini di competenze ed autorevolezza. A Piacenza e a Roma due donne l’hanno sfidata. E ora ci chiedono ascolto. Potremmo unirci all’invito che a Roma la chirurga ha rilanciato: di fronte ai ripetuti epiteti gridati dal professore, ad un certo punto risponde: «dovrebbe lei vergognarsi»[6]. Ecco, dovremmo tutti provare vergogna e non cercare giustificazioni di fronte ad ogni forma di prevaricazione, specie sul luogo di lavoro.
L’auspicio di tutti noi, uomini e donne, è che le attuali studentesse di Medicina — che ormai costituiscono più della metà degli iscritti totali — riescano domani a sfondare definitivamente le pareti della strettoia e il muro del colpevole silenzio con cui oggi copriamo comportamenti ingiustificabili e iniqui.
Nel frattempo, oltre alla solidarietà sincera verso chi con coraggio avvia lo sfondamento e rompe il silenzio, rendiamoci tutti, uomini e donne, parte attiva nel contrastare con le parole e con i fatti chiunque violi il diritto «fondamentale ed inalienabile […] delle lavoratrici/lavoratori e delle studentesse/studenti ad essere trattati con rispetto e dignità e ad essere tutelati nella propria libertà personale ritenendo inammissibile ogni atto o comportamento lesivo di tali diritti»[7].
Pina Lalli
[1] P. Lalli, Il processo di Trigolo e la sua narrazione mediatica, in A.V. Donne al lavoro, Crema, 2019.
[2] Nel 1991 il direttore di una struttura sanitaria per anziani era stato denunciato per molestie sessuali da alcune operatrici: assolto in primo grado, fu condannato in appello, riconoscendo infine credibilità alle vittime.
[3] “Prima Pagina”, 24 gennaio 1992.
[4] M. Stazio, M. Traiola, D. Napolitano, 2008-2020 Rapporto sull’università italiana, UnRest-Net.it, disponibile all’indirizzo https://www.unrest-net.it/2008-2020-Rapporto-sull-universita-italiana.pdf (ultima consultazione giungo 2025).
[5] Mia elaborazione sui dati dell’organico Mur, giugno 2025.
[6] Lo si ascolta nel breve video che qualcuno ha messo in rete.
[7] Estratto dal Codice di comportamento per la prevenzione e la tutela delle molestie morali e sessuali, della mia università, Alma Mater Università di Bologna.